Sulla consulenza filosofica individuale

 

Che si debba ribadire l’importanza che la filosofia sia anche pratica costituisce solo una reazione ad un allontanamento della filosofia da una delle sue vocazioni più originarie.
Una filosofia che ritenesse di potersi disinteressare della pratica sarebbe un po’ come chi si ponesse come obiettivo il sapere senza poi voler far derivare nulla da quel medesimo sapere.
Amante del sapere, e quindi filosofo, è colui che ama anche l’aspetto generativo del sapere e cioè il suo connettersi anche al fare, all’agire.
Sin dalla sua nascita i sapienti filosofi vivevano la loro filosofia, nel senso che la loro filosofia si incarnava nei loro atteggiamenti, nei loro comportamenti, nelle loro azioni oltreché nei loro pensieri.
Vivere la filosofia come pratica, oggi, significa riscoprire quel tipo di atteggiamento, facendo uscire la filosofia dal ghetto delle università, ove spesso si occupa esclusivamente di studi e tecnicismi puramente autoreferenziali.
Questa esigenza di una fuoriuscita della filosofia dall’accademia e di un ritorno alla vita concreta, con i suoi problemi concreti venne espressa con forza da Gerd Achenbach che pare essere stato il primo ad aprire un ufficio di consulenza filosofica (Philosophische Praxis) nei primi anni ottanta in Germania partecipando anche alla costituzione della prima associazione di consulenti con il nome di Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis (IGPP), la prima di una serie di associazioni analoghe poi sorte in vari paesi del mondo.
Da allora la consulenza filosofica si è diffusa a livello mondiale sebbene non si possa ancora dire che sia uscita dalla sua fase pionieristica.
Uno dei dibattiti aperti è relativo al significato stesso della consulenza filosofica: per Rahn Lahv la consulenza filosofica ha una funzione di vivificazione e chiarificazione della visione del mondo, per qualcun altro di messa in movimento del pensiero, per altri ancora la consulenza filosofica dovrebbe svolgere anche un’azione formativa e di edificazione (Raabe), per altri dovrebbe essere espressione di una “filosofia negativa” (Brenifier).
Questa diversità di posizioni potrebbe essere considerata normale visto che potrebbe semplicemente esprimere atteggiamenti filosofici diversi, tuttavia l’eccessiva diversità potrebbe far sorgere il rischio dell’indebolimento della consulenza filosofica intesa come professione, almeno a giudizio di Raabe espresso in Teoria e pratica della consulenza filosofica.
Una tematica spesso oggetto di discussioni nella letteratura della consulenza filosofica è legata alla domanda se la consulenza filosofica debba porsi l’obiettivo di risolvere dei problemi, rispondere a dei bisogni o se non debba limitarsi a chiarificare, vivificare, mobilizzare il pensiero.
Questa domanda poi si intreccia col dibattito sull’utilità o inutilità della filosofia con posizioni che spesso divergono sulla base dal significato attribuito alla filosofia in generale.
A mio avviso i due aspetti, quello più contemplativo, e quello più volto alla risoluzione dei problemi non dovrebbero essere visti come reciprocamente escludentisi, ma come possibilità intrinseche della medesima attività filosofica.
Per quanto mi riguarda, se dovessi dire perché ho iniziato a studiare filosofia, direi che ho deciso di farlo per risolvere dei problemi che la filosofia, in effetti, mi ha poi aiutato a risolvere. La mia esperienza mi porta quindi più all’idea che bisognerebbe affermare l’utilità della filosofia piuttosto che la sua inutilità.
Questo avrebbe fra l’altro anche un risvolto positivo per la promozione della consulenza filosofica come professione visto che di solito si paga un professionista per riceverne qualcosa che si ritenga utile o desiderabile dal proprio punto di vista.
Ora è evidente che chi parla dell’inutilità della filosofia lo fa per proteggerla da un pericoloso scadimento verso un mercantilismo rozzo e superficiale ma ritengo che semmai, qui, invece di abbandonare il concetto di utile si tratterebbe di svilupparlo e di declinarlo più in profondità, in modo tale da accogliere dimensioni di solito neglette da un gretto utilitarismo. Quello che è importante è sfuggire al pericolo segnalato da Achenbach, che condivido, di servirsi di un pensiero che poi non si fosse in grado di giustificare con la propria esistenza [vedi Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano, 2009].
Le maggiori problematiche rispetto alla consulenza filosofica sono a mio avviso non tanto da intravedersi nell’operatività del rapporto tra consulente e consultante, almeno per quanto diffusamente condiviso, pur con varie differenziazioni, all’interno dell’associazione Phronesis, quanto, come accennato, nella filosofia della consulenza filosofica.
È tendenzialmente assodato che si debba porre il consultante al centro della situazione con il suo linguaggio, il suo mondo e che il consulente debba collegarsi a quel linguaggio, entrare in quel mondo in modo tale da supportare il consultante in un processo di chiarificazione. L’approccio deve quindi essere di servizio mettendo le competenze logico-argomentative del consultante al servizio di processi di chiarificazione e ciò in un dialogo aperto, creativo in cui ci sia spazio anche per l’improvvisazione metodologica vale a dire per una flessibilità e creatività di interazione e di risposta così come richiesto dallo sviluppo del dialogo stesso.
Un’altra tematica dibattuta è quella relativa al rapporto che c’è o ci dovrebbe essere tra filosofia del consulente e pratica della consulenza.
È indubbio che la consulenza filosofica, nella sua operatività per lo più consolidata, implichi un atteggiamento di ascolto ed apertura verso il consultante ed il suo mondo ed è pur vero che questo tipo di atteggiamento possa conseguire più o meno naturalmente da alcune filosofie piuttosto che da altre.
È evidente che il credere in una filosofia dogmatica potrebbe non favorire questo atteggiamento di dialogo e scoperta in comune, pur rimanendo altrettanto vero che la credenza in una filosofia dogmatica potrebbe non essere troppo d’ostacolo fintantoché il consulente riesca ad attenersi alle indicazioni operative consigliate, con le indicazioni di ascolto, immersione nel linguaggio e nel mondo del consultante ecc.
Rimane il fatto che trovo più adatto il fatto che la filosofia del consulente sia naturalmente dialogante e aperta in modo tale da garantire una continuità e una maggiore coerenza tra filosofia del consulente e atteggiamento in fase di consulenza.
Altro elemento che trovo auspicabile è che essendo uno degli scopi da porsi a fondamento della consulenza filosofica il diffondere l’atteggiamento filosofico, vale a dire un atteggiamento di ricerca, in primo luogo sulla propria vita, in qualche modo sull’onda dell’insegnamento socratico che una vita senza ricerca non sia degna di essere vissuta, il consulente stesso dovrebbe mostrare coerenza nell’aver acquisito questo atteggiamento di ricerca.
A mio avviso quindi il consulente filosofico dovrebbe dare molta importanza alla cura del suo essere filosofo, il che dovrebbe a mio avviso implicare la cura di alcuni aspetti che considero connotanti la filosofia in generale fra i quali:
* La vocazione insita nel nome filosofia (amore del sapere)
È l’amore per il sapere, inteso in senso ampio, il presupposto della ricerca filosofica. Una ricerca a cui serve una disposizione verso il sapere che non sia spinta da un interesse d’altro genere che non sia l’amore per il sapere stesso. Ciò per garantire al sapere una funzionalità più ampia che possa rispondere a dimensioni più ampie ed estese dei concetti di interesse e utilità, troppo spesso confinati in dimensioni riduttive o superficiali della nostra umanità, come sopra accennavo.
* L’attitudine.
L’attitudine della filosofia alla continua rimessa in discussione dei fondamenti e degli esiti delle argomentazioni e dei saperi acquisiti alimenta potenzialmente la capacità di apertura e ascolto e va nella direzione di garantire al sapere la sua continua attualizzazione e il suo saper rispondere a sempre nuove sollecitazioni. Consente inoltre di rinnovare la consapevolezza di eventuali punti saldi e stabili, ritrovati come tali dopo la messa in discussione.
* La capacità di raccordo.
La filosofia ha la potenziale capacità di creare ponti tra i saperi e di consentire quindi una maggiore armonizzazione tra saperi d’insieme e saperi di dettaglio.
* La tensione verso una verità pubblica e condivisa.
Sin dalla sua origine la filosofia si è caratterizzata per l’attitudine alla ricerca di verità in ogni ambito dell’esperienza, senza preclusioni o vincoli presupposti, verità che potessero essere argomentate e pubblicamente condivise. Ha svolto quindi una funzione di carattere sociale che, non a caso, ha potuto inizialmente svilupparsi in concomitanza con lo stabilirsi dei primi regimi democratici.

A questi punti dovrebbe ulteriormente aggiungersi, come sopra accennato, l’amore per l’aspetto generativo del sapere, che dovrebbe, a mio avviso, essere particolarmente condiviso da chi è interessato alle pratiche filosofiche.
Ma oltre la cura degli aspetti certamente molto importanti e connotanti la filosofia in generale, considero altrettanto importante la cura da parte del filosofo della propria specifica filosofia e questo come naturale e coerente declinazione proprio di quegli aspetti generali.
A tal proposito, essere filosofo ha voluto dire, nel mio caso, aver sviluppato e continuare a sviluppare una filosofia determinata, la filosofia Etid ovvero la Dinamica in-finita e la Topologia esistenziale (vedi il Manifesto).
Uno degli esiti naturali dell’indirizzo di pensiero da me sviluppato è che l’eventuale consapevolezza circa un’eventuale verità sia l’esito di una ricerca personale che debba partire dalla storia, dalle esperienze, dalle convinzioni specifiche della persona e non possa e non debba essere qualcosa che derivi esclusivamente da una pura azione esteriore.
Un ulteriore esito naturale dell’indirizzo di pensiero è la consapevolezza della necessità del dubbio che, si badi bene, non è tuttavia necessariamente collegato alla percezione della verità come strutturalmente ed esclusivamente debole o locale, ma piuttosto alla consapevolezza che qualunque verità asserita sarà sempre il risultato di un processo che come tale dovrà essere ripercorso per giungere eventualmente di nuovo al medesimo risultato.
Un ulteriore aspetto che deriva dalla mia specifica ricerca filosofica è che sia opportuno distinguere tra verità di carattere strutturale e verità di carattere storico-locale.
La mia ricerca mi porta a dire che sia possibile giungere a delle verità di carattere strutturale come esito di una ricerca sulle condizioni di possibilità di ogni evento e che tuttavia tali verità di carattere strutturale non siano sufficienti per la lettura di una situazione specifica che ha comunque sempre connotati storico-locali, non strutturali nel senso generale, determinanti per la lettura stessa.
A ciò si aggiunge la paradossalità, che è però insita nella cosa stessa, di verità identificate come generali e strutturali sempre e solo in un percorso storico-locale.
Questa differenziazione ha nella mia ottica una particolare applicabilità alla consulenza filosofica perché è proprio la verità storico-locale ad avere un ruolo centrale nella consulenza filosofica.
È questa verità storico-locale che rimanda alla storia, alle esperienze specifiche del consultante e che caratterizza il suo mondo. È a questa specifica verità storico-locale, a questo mondo che il consulente deve approcciarsi con la massima attenzione, supportando il consultante ad approfondirla, a metterla alla prova, a rendersene più consapevole ed anche stimolandone l’apertura eventualmente verso nuove e diverse possibilità. Nuove e diverse possibilità che possono emergere creativamente anche dall’incontro di due storie, nel dialogo tra consulente e consultante.
Del resto la singola e specifica storia del consultante emerge in una dimensione anche comune con il consulente, a partire dalla lingua che il consultante usa e che è una lingua in comune. È anche questo costitutivo essere assieme pur nelle differenze che può rendere ulteriormente proficua la consulenza filosofica, potendo sperimentarsi nella consulenza stessa la costitutiva apertura del sé verso l’altro, costitutiva nel senso del loro rimando reciproco.
Lo strumento principe della consulenza filosofica, oltre ad un attento ascolto, è l’argomentazione razionale. Ma la razionalità coinvolta deve essere una razionalità estesa senza limiti preconcetti come si addice ad una razionalità che voglia dirsi filosofica.
Per riassumere vedo, in particolare, due compiti importanti per il consulente filosofico:
– dare supporto al consultante per un’attenta lettura di sé stesso ai fini di un maggior radicamento e quindi anche stimolo per un’analisi critica delle proprie convinzioni e atteggiamenti non indagati
– stimolo ad un’apertura verso il possibile, alla visione delle cose anche da altre prospettive.
Questi due compiti risultano fondamentali anche tenuto conto dell’esistenza di ciascuno di noi, fatta di tanti rapporti inseriti in una dinamica temporale e quindi soggetti ad un continuo mutamento.
Analisi di se stessi e apertura verso l’altro ed il possibile sono compiti estensibili anche alle pratiche filosofiche di gruppo che, se rispetto alla consulenza individuale, possono far perdere di efficacia in termini di lettura delle situazioni individuali specifiche, possono tuttavia costituire un contesto appropriato per esperienze di elaborazione di opinioni condivise (penso ad esempio al dialogo socratico o alla comunità di ricerca).

 

 

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